«Obbligo di tessera per le gare»: la «tassa sul sudore» sui ciclisti della domenica dal Corriere della sera

Introdotta dalla Federazione da gennaio, costa 25 euro l’anno. Amatori in rivolta

Nel solco di una non proprio nobile tradizione parlamentare, anche la «tassa sul sudore» è stata promulgata all’ultimo secondo utile, nel pomeriggio del 22 dicembre, poco prima che la Federazione Ciclistica Italiana (Fci) chiudesse i battenti per la pausa natalizia. L’effetto è immediato: da lunedì prossimo decine di migliaia di ciclisti italiani che ogni anno si misurano con gare o garette di paese o semplici passeggiate cicloturistiche dovranno pagare un canone di 25 euro l’anno alla Fci ricevendo in cambio una Bike Card senza «nessun servizio assicurativo» o di altro genere. I social network l’hanno subito battezzata «tassa sul sudore».

4 milioni di biglietti

In Italia si staccano ogni anno 4 milioni di «biglietti» per partecipare alle corse ciclistiche. Per acquistarli, dagli anni Cinquanta a oggi, è sufficiente aderire a uno dei 19 enti di promozione sportiva (Eps) autorizzati dal Coni. Nati nel dopoguerra per iniziativa di partiti politici, associazioni di volontariato e patronati sindacali, gli Eps rilasciano centinaia di migliaia di tessere (in genere a buon mercato) dietro presentazione di un certificato medico. Nel nostro sport amatoriale vale da sempre un leale principio di reciprocità: scelgo l’ente più affine a me dal punto di vista geografico, culturale o religioso ma conservo il diritto di partecipare agli eventi organizzati da tutti gli altri. La Federciclismo (cui il Coni ha appena contestato un deficit di bilancio di oltre 2 milioni di euro) non ci sta più e vuole il controllo su chiunque pedali. Dopo aver tentato invano in passato di imporre agli organizzatori un obolo di un euro su ogni partecipante e agli enti un contributo di 1,5 euro a tessera, ha deciso di rivalersi direttamente sui pedalatori. Esclusi Uisp e Acsi — che si sono arresi a un accordo privato — gli altri enti dovranno vendere ai loro soci anche la Bike Card per farli ammettere alle corse.

Renato Di Rocco

Soldi per la giustizia sportiva«Ma quale tassa —

si accalora Renato Di Rocco, presidente della Federciclismo — la nostra è un’iniziativa politica per combattere chi ci fa concorrenza sleale con i contributi pubblici. I soldi serviranno a gestire servizi comuni come la giustizia sportiva. Non raccoglieremo più di 70-80 mila euro. Chi non vuole acquistare la Bike Card abbandoni gli enti e si tesseri direttamente con noi: siamo i più seri. La Bike Card offrirà comunque anche dei servizi. Quali? Ci penseremo. L’ha fatto l’atletica, possiamo farlo anche noi». Già, l’atletica leggera. La federazione italiana (Fidal) ha la sua Run Card dal 2014, basata però su un principio diverso da quella ciclistica: invitare alla corsa «organizzata» chi si limita al jogging solitario nei parchi. L’intento è riuscito (50 mila adesioni) ma la tentazione del monopolio resta forte.

Il monopolio Fidal

Dallo scorso anno i 200 mila runner tesserati agli enti di promozione sportiva devono acquistare (15 euro l’anno) anche la Run Card per partecipare alle corse su strada più popolari e gettonate, quelle mezze maratone e maratone su cui la Fidal ha deciso di esercitare il monopolio e dove le tessere Uisp o Libertas da sole non bastano più. Già vessati da spese e tasse, alcuni organizzatori stanno inscenando una ribellione tra il creativo e il sacrilego: limano ad arte le distanze (21,1 chilometri invece di 21,097 e 42,2 al posto dei canonici 42,195 della maratona) e cambiano nome alle gare per mantenerle democraticamente aperte a tutti.

Nel solco di una non proprio nobile tradizione parlamentare, anche la «tassa sul sudore» è stata promulgata all’ultimo secondo utile, nel pomeriggio del 22 dicembre, poco prima che la Federazione Ciclistica Italiana (Fci) chiudesse i battenti per la pausa natalizia. L’effetto è immediato: da lunedì prossimo decine di migliaia di ciclisti italiani che ogni anno si misurano con gare o garette di paese o semplici passeggiate cicloturistiche dovranno pagare un canone di 25 euro l’anno alla Fci ricevendo in cambio una Bike Card senza «nessun servizio assicurativo» o di altro genere. I social network l’hanno subito battezzata «tassa sul sudore».

4 milioni di biglietti

In Italia si staccano ogni anno 4 milioni di «biglietti» per partecipare alle corse ciclistiche. Per acquistarli, dagli anni Cinquanta a oggi, è sufficiente aderire a uno dei 19 enti di promozione sportiva (Eps) autorizzati dal Coni. Nati nel dopoguerra per iniziativa di partiti politici, associazioni di volontariato e patronati sindacali, gli Eps rilasciano centinaia di migliaia di tessere (in genere a buon mercato) dietro presentazione di un certificato medico. Nel nostro sport amatoriale vale da sempre un leale principio di reciprocità: scelgo l’ente più affine a me dal punto di vista geografico, culturale o religioso ma conservo il diritto di partecipare agli eventi organizzati da tutti gli altri. La Federciclismo (cui il Coni ha appena contestato un deficit di bilancio di oltre 2 milioni di euro) non ci sta più e vuole il controllo su chiunque pedali. Dopo aver tentato invano in passato di imporre agli organizzatori un obolo di un euro su ogni partecipante e agli enti un contributo di 1,5 euro a tessera, ha deciso di rivalersi direttamente sui pedalatori. Esclusi Uisp e Acsi — che si sono arresi a un accordo privato — gli altri enti dovranno vendere ai loro soci anche la Bike Card per farli ammettere alle corse.

Soldi per la giustizia sportiva

«Ma quale tassa — si accalora Renato Di Rocco, presidente della Federciclismo — la nostra è un’iniziativa politica per combattere chi ci fa concorrenza sleale con i contributi pubblici. I soldi serviranno a gestire servizi comuni come la giustizia sportiva. Non raccoglieremo più di 70-80 mila euro. Chi non vuole acquistare la Bike Card abbandoni gli enti e si tesseri direttamente con noi: siamo i più seri. La Bike Card offrirà comunque anche dei servizi. Quali? Ci penseremo. L’ha fatto l’atletica, possiamo farlo anche noi». Già, l’atletica leggera. La federazione italiana (Fidal) ha la sua Run Card dal 2014, basata però su un principio diverso da quella ciclistica: invitare alla corsa «organizzata» chi si limita al jogging solitario nei parchi. L’intento è riuscito (50 mila adesioni) ma la tentazione del monopolio resta forte.

Il monopolio Fidal

Dallo scorso anno i 200 mila runner tesserati agli enti di promozione sportiva devono acquistare (15 euro l’anno) anche la Run Card per partecipare alle corse su strada più popolari e gettonate, quelle mezze maratone e maratone su cui la Fidal ha deciso di esercitare il monopolio e dove le tessere Uisp o Libertas da sole non bastano più. Già vessati da spese e tasse, alcuni organizzatori stanno inscenando una ribellione tra il creativo e il sacrilego: limano ad arte le distanze (21,1 chilometri invece di 21,097 e 42,2 al posto dei canonici 42,195 della maratona) e cambiano nome alle gare per mantenerle democraticamente aperte a tutti.

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